La storia di Monica Sani che, dall’età di trent’anni, convive con una forma di immunodeficienza primitiva. Psicologa e madre di due ragazzi, spiega come, grazie alle immunoglobuline da plasma donato, oggi può vivere una vita piena e ricca di soddisfazioni.
 

«I donatori sono angeli salvavita che spendono il loro tempo per donare parte di sé e aiutare il prossimo: mi commuovo a pensarci, perché proprio a loro devo la mia di vita». Basterebbe questa frase per far capire quanto, un piccolo gesto, rappresenti per tante persone la risposta più importante alle loro necessità.

Chi la pronuncia è Monica Sani, psicologa, che lavora e vive a Verona insieme al marito Lucio e ai figli Carlo Alberto e Alessandro. È sua la storia che raccontiamo oggi. Una testimonianza preziosa, ricca di amore e riconoscenza verso chi, da anni, le permette di stare bene e portare avanti i suoi progetti. Semplicemente, di vivere. I suoi ricordi partono da lontano: «Fin da bambina sono sempre stata piuttosto fragile, con continui raffreddori e febbri che si protraevano molto più a lungo rispetto ai miei coetanei».

A differenza di quanto avviene altre volte, con l’età la situazione anziché migliorare peggiora: «A vent’anni parto per la mia prima vacanza da sola. Sono al mare e vengo colpita da una broncopolmonite. Fortunatamente – spiega – in quel periodo ero una volontaria della Croce Verde e in vacanza ero proprio con un gruppo di amici legati a quell’ambito. Proprio loro mi hanno portato in ospedale dove, a seguito della diagnosi, inizio una terapia antibiotica».

Da quel momento gli episodi si fanno più frequenti, fino al ricovero per una sepsi urinaria intorno ai 23 anni dove, per la prima volta, i medici si accorgono di un livello molto basso di immunoglobuline. Nessuno però, come ricorda Monica, «riusciva a capire da cosa derivassero i miei problemi, tanto da portarmi a provare diverse strade, compresa l’omeopatia. Ma ovviamente senza successo». Ciononostante, partorisce anche il secondo figlio, pur trovandosi ormai in una condizione quasi cronica di broncopolmonite, con tosse e altri sintomi.

Quello che le genera ulteriore apprensione è l’incapacità di compiere anche azioni normalissimecome, ad esempio, «quando ero al mare con la mia famiglia e non riuscivo nemmeno a gonfiare la piscinetta per i bambini. A seguito di quello che non si dovrebbe neanche definire come uno sforzo, accuso un’emorragia polmonare con conseguente nuovo ricovero in ospedale. In quell’occasione mi viene trovata una compromissione a livello respiratorio con annesse bronchiettasie. Avevo trent’anni».

È però il momento della svolta. Per via di alcune analisi che deve effettuare per lavoro, Monica viene indirizzata a Brescia in un centro specializzato per le malattie autoimmunitarie. Lì incontra quello che, ancora oggi, definisce «l’angelo della mia vita. Il dottor Paolo Airò, finalmente, mi dà la diagnosi di immunodeficienza primitiva».

Tornata a Verona inizia le infusioni di immunoglobuline, ma quando tutto sembra andare per il meglio, Monica deve nuovamente fermarsi: «Per via di uno shock anafilattico devo interrompere la terapia, probabilmente per una forma allergica verso alcune IgA. Dopo un periodo di stop ho potuto riprendere e, grazie ai passi in avanti compiuti dalla ricerca, oggi le punture posso farle autonomamente sottocute a casa mia». È qui che la sua vita cambia tanto da non subire più alcun tipo di infezioni.

Un percorso lungo quello che ha dovuto seguire prima di riuscire a fare luce sulla sua situazione. Ma com’è oggi la vita di Monica? «Normalissima, certo sono sempre un soggetto considerato fragile, ma posso fare quello che fanno tutte le altre persone. Sono molto impegnata con AIP (l’Associazione immunodeficienze primitive, ndr) e questa mia attività mi ha sempre fatto capire che la vita è fatta per aiutarsi. Io stessa, se non avessi riscontrato la solidarietà nelle persone che ho conosciuto sulla mia strada, probabilmente sarei morta e avrei lasciato i miei figli orfani».

Ed è in questo passaggio che, comprensibilmente, la sua voce squillante e determinata tradisce una certa emozione: «La responsabilità della mia famiglia, il pensiero di non riuscire a vedere crescere i miei ragazzi mi ha sempre perseguitata – racconta – Ho vissuto con il fiato della morte sul collo, viste le malattie e gli effetti con cui avevo a che fare. Sono ricordi che segnano e che provocano traumi difficili da superare. Oggi però sono qui – conclude – sono una donna serena e tutto questo grazie a chi, con il proprio gesto e la propria generosità, mi consente di vivere: i donatori».